Un sorriso ancora di Erika Bottiglia: Release blitz:

 

 

Un sorriso ancora - bannerOggi il blog partecipa al Release blitz del romanzo di Erika Bottiglia, intitolato Un sorriso ancora. Il volume è edito dalla Darcy edizioni ed è uscito oggi, mercoledì 15 gennaio.  Il 23 gennaio vi aspetto qui sul blog, dove potrete leggere la mia recensione.

Un sorriso ancora - cover ebook

Titolo: Un sorriso ancora
Autore: Erika Bottiglia
Editore: Darcy edizioni
Genere: romance contemporaneo, sport romance
Pagine: 410
Costo: 2,99€ ebook – 16€ cartaceo – su KU – In offerta in preorder a 0,99 fino al giorno d’uscita
Data d’uscita: 15 gennaio 2020
Trama:
A lei un incidente ha portato via tutto.
Lui è stato spezzato dall’amore.
Entrambi hanno eretto un muro per non dover più soffrire, ma appena i loro occhi si incrociano in un pub affollato qualcosa cambia… il cuore sembra ritornare a battere.
Lui diventa il suo antidoto.
Lei la sua boccata d’aria.
Saranno in grado di andare oltre la paura che si annida nei loro cuori e fare spazio all’altro, soprattutto quando, dietro le quinte, appare qualcuno pronto a tenerli distanti?

 

Un sorriso ancora - cover cartaceo

Biografia
Erika è nata a Catania nel 1991.
Laureata in Economia Aziendale prosegue gli studi magistrali in Direzione aziendale.
Si è avvicinata alla lettura al terzo anno di liceo, tramite un concorso letterario in cui venne iscritta con l’intera classe; è stato amore a prima vista.
Vorrebbe che le giornate fossero più lunghe di 24 ore per avere più tempo da dedicare alla lettura e alla scrittura.
Cammina sempre con un libro in borsa, le immancabili cuffie alle orecchie ed è sempre con la testa fra le nuvole.

Un sorriso ancora - card

Prologo

Nicoletta

 

Infilo i guantoni neri a strisce rosse e strofino i pugni l’uno contro l’altro per sentire il fruscio dell’ecopelle. Saltello sul posto per riscaldare i muscoli e trasformare la tensione che avverto sulle spalle in una buona dose di adrenalina, mentre butto un’occhiata fugace alla porta da cui aspetto di vedere entrare il mio coach, ossia mio padre. Non so spiegarmene il motivo, ma gli occhiali da vista che gli ricadono sul naso importante e la camminata affrettata, che lo caratterizza perché perennemente in ritardo, riescono ad allentare il nodo d’ansia allo stomaco che mi striscia addosso prima di ogni incontro.
Controllo l’ora sull’orologio nero appeso dietro alle mie spalle, chiedendomi dove sia finito; avrà di certo trovato confusione tornando dalla posta. Gliel’avevo detto stamattina di spedire il pacco domani; il solito testardo. Beh, nell’attesa che lui arrivi, continuerò a tenermi impegnata con la mia amata boxe.
Mi muovo scattante avanti e indietro dando via al gioco di gambe, rilasso la postura e tengo alta la difesa. Colpisco il vuoto con qualche combinazione, immaginandomi già sul ring ad affrontare la mia avversaria: l’incubo della categoria dei pesi leggeri. Quella ragazza ha un dritto davvero invidiabile e va sempre a segno. Dà il meglio di sé nelle brevi distanze e i suoi colpi sono molto potenti. Se voglio avere una possibilità di vittoria contro di lei, devo evitare che trovi uno spiraglio di debolezza nella mia difesa e mi butti all’angolo senza darmi un attimo di respiro. Dovrei essere terrorizzata all’idea di salire sul quadrato e trovarmela faccia a faccia, invece non sto più nella pelle: voglio battermi contro di lei.
Ruoto su me stessa e osservo l’ambiente della stanza. Le pareti, una volta di un bell’arancione, sono scrostate e macchiate da chiazze di umidità sul soffitto e sui muri perimetrali. Le ante degli armadietti scricchiolano e appaiono talmente fragili da poter cadere da un momento all’altro sulle piastrelle scure del pavimento. La poca manutenzione dello spogliatoio mi sconcerta e mi affretto a sbirciare l’interno delle docce; a prima vista sembrano pulite e discretamente funzionanti, nonostante vi manchino i soffioni. Potrò darmi una lavata a fine gara senza il pericolo di incorrere in infezioni fungine, constato con sollievo.
Alzo un piede sulla panca di legno per stringere i laccetti dello stivaletto bianco e poi faccio lo stesso con l’altra scarpa. Afferro l’asciugamano rosso con il logo della palestra dal borsone nero e me lo appoggio sul collo. Recupero la bottiglietta d’acqua e conto i minuti che mi separano dalla mia avversaria.
Non vedo l’ora di iniziare.
La porta si apre e sorrido per nascondere l’ansia sul mio volto, servirà a ben poco, perché mio padre sgamerà il mio stato d’animo appena mi guarderà in faccia, pazienza.
«Papà sei in…» mi blocco. Non mi scontro con il suo volto affollato da mille scuse, ma con il viso cereo e scioccato del suo migliore amico. Uno strano senso d’inquietudine si fa largo in me, stringendomi le budella in una morsa, spiazzandomi, e provo con tutte le forze ad allontanare il peggiore dei miei incubi dalla mente.
«Davide?»
Il suo nome mi sfugge in un fievole sussurro, quasi come se avessi paura di ciò che potrebbe dirmi.
Lui rimane impalato sulla soglia, si morde il labbro, mi fissa e distoglie i suoi occhi verdi dai miei, non trovando il coraggio di dirmi ciò che il suo viso mi ha urlato appena entrato. Solo allora mi accorgo dei due uomini in divisa di fianco a lui.
Il cuore aumenta la sua corsa nel petto. Le lacrime colano all’improvviso sul viso. Il respiro si mozza nei polmoni.
Il più alto dei carabinieri, che non sembra avere più di trent’anni, lo scosta dolcemente per farsi spazio e io mi sento morire. Non mi piace come i suoi occhi scuri mi squadrano; non mi piace sentirmi impotente di fronte a tre paia di occhi che aspettano di vedermi crollare.
Ignoro ognuno di loro, ormai ombre di un incubo crudele, e fisso la porta con disperata agonia. Prego che sia tutto un bruttissimo scherzo e che mio padre entrerà nello spogliatoio tra pochi minuti con il respiro affannato e la sua chioma brizzolata. Mi abbraccerà stretta stretta a lui e manderà al diavolo queste persone per aver ridotto il mio povero cuore in brandelli.
Ti prego, non puoi lasciarmi!
Sento ogni secondo scandirsi lentamente e prepotentemente dentro di me come il ticchettio di un orologio, eppure lui non arriva.
«Nicoletta Corsi?»
La voce gentile del carabiniere mi chiama a sé e io vorrei solo urlargli di andarsene affanculo, che sta sbagliando persona, ma non riesco a fare nulla di tutto ciò. Spaesata, rivolgo la mia attenzione a lui, impaurita dalle parole che potrebbe pronunciare se solo provassi a emettere un lieve sospiro.
Trattengo il labbro inferiore tra i denti e accenno un piccolo movimento del capo. Il suo modo di osservarmi mi fa sentire… Indifesa. Fragile. Impotente.
«Suo padre ha avuto un incidente con la macchina. Dovrebbe…»
«Lo hanno portato in ospedale, per questo lei è qui? Devo seguirvi, ma non è nulla di grave, vero?»
Più la mia supplica diventa sofferente, più l’espressione sul suo viso perde l’imperturbabilità e mi dà le risposte di cui ho bisogno. Mi affloscio a terra, copro il viso con i guantoni e scoppio a piangere disperatamente. In un attimo Davide mi è vicino, mi avvolge tra le sue braccia e mi stringe a sé per darmi conforto. Io rimango apatica, mentre il mio mondo si frantuma sotto i piedi.
«Piccola, mi dispiace così tanto.»
La sua voce è vellutata e mi sfiora con tenerezza, ma non riesco a darle attenzione.
Vorrei urlare per la disperazione, ma le parole mi rimangono incastrate in gola. Non riesco a respirare, è come se il mio cuore venisse infilzato lentamente da una lama incandescente e poi lacerato con brutale crudeltà: mi toglie il fiato.
Guardo la porta pregando che sia solo un brutto sogno, perché lui non può essersene andato davvero, mio padre non può avermi lasciata da sola. Non può essere…
«È morto, Davide. Mio padre è morto, non… non lo rivedrò più…»
E solo quando riesco a dare voce alle mie parole, prendo coscienza del vero significato che si cela dietro a ciò che è appena successo e ne vengo travolta.
Ripenso a lui, al suo profumo di sandalo, ai suoi occhi più chiari dei miei, alla sua passione per la boxe e mi sento morire. Non sentirò più la sua voce in casa; non sentirò più le sue lamentele quando rincaserò tardi; non sentirò i suoi incoraggiamenti durante i nostri allenamenti.
Mi restano solo i miei ricordi e le foto sparpagliate in casa per non dimenticarmi di lui. Ma non mi basteranno mai! Dimenticherò il suo timbro di voce; dimenticherò la sua risata; dimenticherò le sue sfuriate. Dimenticherò ciò che le foto non riescono a immortalare, i ricordi che non sono stati catturati da una polaroid o da un cellulare.
Mi lascio andare a un pianto angosciante pieno di singhiozzi, che mi strappano via il respiro e mi mandano in apnea. Mi chiedo disperatamente come sia potuto accadere. Cerco invano di trovare una risposta alla sola domanda che mi martella in testa, furiosamente.
Perché?
Perché?
Perché?
Perché mi è stata strappata via l’unica famiglia che avevo?
Ma non ne trovo.

 

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