Storytelling Chronicles #10 : Un grande sogno di Silvia Bucchi.

Cover di Tania

Oggi il blog partecipa alla rubrica Storytelling Chronicles, ideata da Lara del blog La nicchia letteraria. Il tema questo mese era legato alla scelta di una poesia, tra le proposte io ho scelto Dedicato a tutte le donne di Alda Merini.

Titolo: Un grande sogno

Autrice: Silvia Bucchi.

Tema: Dedicato a tutte le donne di Alda Merini.

Storytelling Chronicles #10 – Novembre 2020.

Dedicato a tutte le donne (Alda Merini)

 

Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso

sei un granello di colpa

anche agli occhi di Dio

malgrado le tue sante guerre

per l’emancipazione.

Spaccarono la tua bellezza

e rimane uno scheletro d’amore

che però grida ancora vendetta

e soltanto tu riesci

ancora a piangere,

poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,

poi ti volti e non sai ancora dire

e taci meravigliata

e allora diventi grande come la terra

e innalzi il tuo canto d’amore.

 

Ho compiuto ottant’anni da un mese. Sono stata prima una figlia, poi una giovane donna e una delle poche ragazze con una laurea in ingegneria nei primi anni ‘60. Sono stata una moglie, una madre e una ricercatrice universitaria. Ed ora me ne sto qui, in soggiorno, con Valentina, una delle mie nipoti, che legge a voce alta Dedicato a tutte le donne, la meravigliosa poesia scritta da Alda Merini. Vale è tutta presa dall’interrogazione che dovrà affrontare domani. Ci tiene a fare una figura meravigliosa con l’insegnante di Lettere ed è una ragazza precisa e studiosa, che punta sempre al massimo. Proprio come facevo io alla sua età, quando sognavo di diventare un ingegnere, di andare all’università e di allontanarmi dalla piccola città di provincia in cui sono nata. So che è venuta da me per farsi spiegare la poesia della Merini, che domani dovrà analizzare in classe. So che avrebbe bisogno del mio supporto morale perché solo io comprendo l’ansia da prestazione che attanaglia tutte quelle  ragazze, che riescono a prendere dieci a un’interrogazione o 30 a un esame, ma prima tormentano il prossimo con i loro dubbi riguardo la buona riuscita dell’impresa. Vale è proprio come me, ma ormai ho superato le ottanta primavere e  ho capito che il risultato di un esame o il timore di affrontare un professore sono solo una piccola parte degli ostacoli che la vita ci pone davanti. Ci sono prove molto più difficili, le cui conseguenze sono più dolorose e le perdite ancor più terribili, soprattutto per noi donne. Dovrei supportare mia nipote ma la mia mente viene rapita dai versi della poetessa e mi lascio trasportare dai ricordi. 

 

Era  il 1959 e stavo  preparando una valigia. Avevo  ottenuto una borsa di studio che mi avrebbe permesso di frequentare il Politecnico di Torino. Mio padre mi aveva sempre sostenuta ed era felice per me. Amava ripetermi questa frase sin da quando ero bambina e invece di giocare con le bambole, preferivo scoprire il funzionamento degli oggetti. 

« La mia Anna sa quello che fa. Niente è impossibile per lei.» Sapevo che l’indomani mi avrebbe accompagnata alla stazione e sarebbe stato il primo a fare il tifo per me. Lui era sempre stato fiero della sua bambina, ma lo stesso non si poteva dire di mia madre. 

«Nessuno prenderà in moglie una ragazza con una laurea in ingegneria. Gli uomini vogliono una donna che stiri loro le camicie, prepari il pranzo e cresca i loro figli. Non desiderano una compagna  intelligente, che sogna di costruire ponti e che magari guadagnerà  più di loro. Resterai zitella» mi ripeteva in continuazione e poi tormentava mio padre, reo di avermi riempito la testa di grilli e di sogni che avrebbero reso la mia vita più difficile. Per mia madre non esisteva condanna peggiore di essere una donna nubile.

« Credi che i suoi colleghi le renderanno l’esistenza semplice? Non penso proprio che la tratteranno come una loro pari, Giuseppe.» urlava la mamma rivolgendosi a mio padre, che generalmente venerava e contro il quale, in circostanze normali, non avrebbe mai alzato la voce. Mia madre in un certo senso aveva ragione. Ho trovato molti ostacoli durante la mia carriera, ma proprio come aveva previsto papà, sono stata in grado di affrontarli e di superarli. 

Di una cosa, però, ero certa. Non mi sarei mai innamorata. L’amore non faceva per me, pensavo. Povera illusa.  Il volto di Mario appare davanti ai miei occhi, mentre Valentina ripete la sua poesia. Torno indietro nel tempo e mi rivedo davanti all’entrata principale del Politecnico, circondata dai miei colleghi, per lo più maschi in quel freddo inverno del 1961. Noi ragazze eravamo una decina e spesso diventavamo oggetto di derisione oppure di attenzioni non richieste, che ci venivano riservate con il solo scopo di umiliarci. Una parte di me invidiava la spensieratezza di quei ragazzi, che potevano frequentare le lezioni durante il giorno e divertirsi nei locali di notte.  Per mantenermi a Torino avevo dovuto trovare un’occupazione e non potevo seguire le lezioni, mentre la sera, una volta terminato il mio turno di otto ore nel  bar dove lavoravo come cameriera, mi dedicavo allo studio, lottando contro la stanchezza pur di realizzare il mio sogno: laurearmi e diventare un ingegnere. A volte, però, avrei voluto vivere con la stessa spensieratezza che vedevo aleggiare tra gli altri studenti, per lo più di buona famiglia. Un giorno, prima di un esame importante, mi scontrai con uno di loro. Era biondo con gli occhi azzurri e pensai di avere davanti a me un angelo. Fu così che mi innamorai per la prima volta. Si chiamava Mario ed era iscritto al mio stesso anno. Ricordo ancora la gioia di mia madre quando glielo presentai e il dolore che mi procurarono le parole che lei pronunciò più volte. 

«Adesso dovresti abbandonare la tua folle idea, tesoro. Un ingegnere in famiglia basta e avanza.»  E ovviamente non sarei stata io la fortunata, anche se ero quella che otteneva i voti più alti e che aveva una naturale predisposizione per l’ingegneria. Mario era disinteressato non solo agli studi, ma anche alla sottoscritta. Scoprii che mi tradiva e che non aveva bisogno di una fidanzata, ma di una collega in grado di aiutarlo a scrivere le tesine e a preparare l’esame di chimica. Rimasi delusa e per un attimo pensai che mia madre avesse  ragione: avrei lottato per affermarmi in un mondo dominato dagli uomini. Stavo facendo la scelta giusta?  Mio padre continuava a incoraggiarmi.

«Non dare retta a tua madre. Quel Mario era un idiota. Prosegui per la tua strada, ragazza mia.»

Il mio percorso, però, non fu privo di ostacoli. I professori consideravano noi ragazze delle studentesse di serie B, convinti che solo gli uomini fossero in grado di essere degli ottimi ingegneri. Avevo imparato a farmi rispettare, ma con educazione e a pretendere di ricevere il trattamento che meritavo. Dovevo lottare di più dei miei colleghi maschi, ma non mi tiravo mai indietro. 

Le poche professoresse che erano riuscite ad affermarsi nel mondo accademico incitavano noi studentesse a non lasciarci sopraffare dai sentimenti e a mettere la carriera al primo posto, anche rispetto all’amore o al desiderio di formare una famiglia.  

Non ero mai stata del tutto convinta che questo ragionamento fosse giusto. Nessuno aveva mai chiesto a un uomo di scegliere tra la vita privata e quella professionale, ma a noi ragazze veniva spesso imposto di prendere una decisione lacerante e netta, sacrificando una parte di noi stesse. 

Per un po’ la questione non sembrò riguardarmi. Mi ero appena laureata e in attesa della grande opportunità della mia carriera, continuavo a lavorare come cameriera. Con grande delusione di mia madre, dopo la fine terribile della mia relazione con Mario, non mi ero più innamorata. Il destino, però, ci mise lo zampino, tentando di esaudire sia il desiderio della mamma di vedermi sposata, che quello di mio padre di avere una figlia realizzata dal punto di vista professionale. Avvenne tutto così all’improvviso che gli avvenimenti mi travolsero come un tornado. Nell’ottobre del 1963 un ragazzo alto e affascinante entrò in caffetteria, mentre ero al bancone intenta a servire un caffè al signor Arturo, un cliente abituale. Per poco non versai la bevanda calda sull’abito elegante dell’anziano signore. Il giovanotto alto mi aveva completamente stregata e le mani avevano iniziato a tremare e a sudare. Mi sentivo attratta da lui come da una calamita. Scoprii che si chiamava Angelo ed era il nuovo commesso della ferramenta del quartiere. Ci innamorammo perdutamente e per la prima volta in vita mia iniziai ad immaginarmi come una moglie e una madre. Era l’uomo con il quale avrei voluto condividere tutta la mia vita e stavamo già progettando un futuro insieme, ma circa sei mesi dopo giunse anche la prima proposta di lavoro, quella che avrebbe potuto far decollare la mia carriera nel campo dell’ingegneria : volevano offrirmi un posto in un gruppo di ricerca a Roma. Era giunto il momento della scelta: dare la precedenza al matrimonio, rifiutando la proposta oppure partire per la Capitale e cercare di far funzionare una relazione a distanza. La decisione che mi riguardava divise la mia famiglia: per mio padre non dovevo assolutamente partire e realizzare il sogno per il quale mi ero tanto sacrificata. La mamma, però, non era del suo stesso avviso. 

«Proprio ora che hai trovato un bravo ragazzo, stai rovinando tutto. Finirai i tuoi giorni in solitudine, come la zia Margherita. Allora nemmeno le tue autostrade o i tuoi ponti ti saranno di conforto.» ripeteva sempre, rendendo la mia scelta decisamente più difficile di quanto non  fosse già.

Perché dovevo scegliere? Perché non potevo essere una donna in carriera, ma anche una moglie e una madre felice? Pretendevo forse troppo?

Fu Angelo ad aiutarmi davvero e a compiere una scelta, che in pochi avrebbero fatto: lasciare il lavoro in ferramenta e seguirmi a Roma. 

«Sei una delle donne più brillanti che io conosca. Non puoi e non devi porti dei limiti. Io voglio essere la persona che ti aiuterà a realizzare i tuoi sogni, non colui che ti impedirà di volare.»

Ci sposammo nel giugno del 1964 e subito dopo ci trasferimmo a Roma, dove vivemmo gli anni più intensi della nostra intera esistenza. Imparammo ad essere amanti, complici e genitori e a conciliare la nostra vita familiare con la mia carriera accademica. Imparai a combattere contro i sensi di colpa, che provavo quando il lavoro mi allontanava dai miei figli e da Angelo. I sorrisi e gli abbracci dei miei bambini mi confortavano e rendevano meno pesante il mio difficile compito di conciliare il lavoro con la carriera. 

Non mancavano i commenti delle persone che faticavano a comprendere la scelta di vita che aveva compiuto mio marito. Per molti all’epoca erano le donne a dover seguire il compagno e non il contrario. Per altri era impensabile che la moglie guadagnasse lo stipendio più alto o che trascorresse  gran parte della giornata fuori casa. Anche all’interno dell’università o in altri ambiti lavorativi, spesso venivo scambiata da chi mi incontrava per la prima volta per una segretaria o per l’assistente di un professore, ma mai per una docente o una ricercatrice. Non è stato un percorso facile, ma adesso che ho ottant’anni e che volgo lo sguardo indietro, mi rendo conto che ogni sacrificio, ogni senso di colpa, ogni momento di sconforto è servito a costruire la vita meravigliosa, piena ed intensa che ho vissuto. Ora che il mio cammino sta per volgere al termine posso dire di sentirmi soddisfatta per le scelte che ho fatto, anche se mi sono costate tanta fatica. Osservo Valentina e sorrido. Lei mi assomiglia: ha la mia stessa forza, il mio coraggio e sono certa che riuscirà a raggiungere tutti i suoi obiettivi. 

Copyright @ 2020 Silvia Bucchi

Questo racconto è un’opera di fantasia . Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono prodotto dell’immaginazione dell’autrice o se reali , sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti o persone viventi o scomparse è del tutto casuale. 

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8 commenti su “Storytelling Chronicles #10 : Un grande sogno di Silvia Bucchi.

  1. Stephi il said:

    Ciao Silvia! Trovo questo tuo scritto un omaggio davvero bello alla poesia della Merini da cui ti sei lasciata ispirare. Si sente in ogni riga il richiamo ai versi, perfettamente mescolati alla vita di questa donna che ci racconti nei punti più salienti, ma proprio per questo ancor più significativi. Anche la forma del racconto è molto scorrevole: si legge senza fatica, tutto d’un fiato dall’inizio alla fine. Hai fatto un bel lavoro, a mio avviso! Brava!

  2. Silvia Maria Bragalini il said:

    Ciao Silvia! Innanzitutto grazie mille per aver raccolto la mia sfida poetica e per aver scelto questa poesia della Merini, che mi è sempre piaciuta molto. La tua storia, per certi versi, mi ha ricordato le biografie di grandi scienziate o educatrici del XX secolo, come Rita Levi Montalcini o Maria Montessori. I loro percorsi, così come quelli della tua protagonista, non sono stati per niente facili, ma almeno in tarda età esse sono riuscite a conquistare i traguardi e le soddisfazioni che si meritavano. Hai sollevato tante questioni riguardanti la condizione femminile: alcune appartengono più agli anni ’60 (giustamente), ma tante altre, purtroppo, si rivelano ancora attuali non appena c’è un dibattito in corso o accade un brutto caso di cronaca.
    La tua storia è scorrevole, intensa ed emozionante.
    Complimenti di cuore e alla prossima!

  3. Bellissima e davvero commuovente la tua storia. Ti sei fatta ispirare molto bene dalla poesia della Merini, raccontando del coraggio di una donna in una società maschilista. Mostri le debolezze ma anche la forza di noi donne che sanno combattere per ciò in cui credono. Davvero brava.

  4. Ciao Silvia!
    Il tuo racconto è la perfetta trasposizione della poesia di Alda Merini, un inno al coraggio delle donne di essere pienamente loro stesse, realizzate in ogni ambito della vita senza sacrificarne nessuno, il che significa poter decidere come vivere, se essere una donna “di casa” (classificazione riduttiva) o se invece realizzarsi nel lavoro, due estremi che non si dovrebbero escludere a vicenda come purtroppo accade.
    Hai saputo rendere il contesto sociale alla perfezione, davvero brava 🙂
    Federica

  5. Ciao. Un bellissimo racconto, hai usato i versi della poesia alla perfezione, li ho intravisti tra le righe mentre leggevo la storia della protagonista. Hai affrontato un tema complesso, purtroppo ancora molto presente e ti devo fare i complimenti per come lo hai trattato: in modo semplice e secondo me con le giuste parole.
    Complimenti per questo racconto.

  6. Anne Louise Rachelle il said:

    Wow Silvia! Ho ancora gli occhi lucidi. L’idea di un tuffo nel passato, in un’epoca in cui le donne – almeno nella nostra società – avevano non poche difficoltà è stata molto originale. Hai interiorizzato la poesia della Merini alla perfezione, raccontandoci uno scorcio di vita in cui chissà quante donne potrebbero riconoscersi. Mi sono immersa nel lettura e quando ho terminato avevo il cuore pieno, gonfio, di emozione. Grazie per queste bellissime righe, scritte con il tuo stile scorrevole e piacevole. Al prossimo racconto!

  7. Simona Busto il said:

    Una tematica molto attuale. Anche oggi le donne spesso si ritrovano a dover compiere una scelta dolorosa. Purtroppo il nostro paese è parecchio arretrato in materia e dubito che le cose miglioreranno nel breve termine.
    Ti faccio i miei complimenti per come hai gestito la storia.

  8. Oddio, che tenerezza, carissima Silvia *-* Hai scelto la stessa poesia a cui mi sono ispirata io, ma hai tirato fuori una storia completamente diversa dalla mia 😀 Mi complimento con te, anche e soprattutto perché hai saputo coinvolgermi più del dovuto in quanto ho percorso anche io la strada tortuosa dell’ingegneria e temo che nel mio futuro sarà difficile conciliare tutto quanto desidero da sempre… Ciò non implica che non sia pronta alle sfide del domani, proprio come la tua Anna :3 Fatevi sotto, cattivone, ho già tirato fuori gli artigli 😉

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